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Storia & Storie

Tra le vie di Faber

Genova per me è come una madre. È dove ho imparato a vivere. Mi ha partorito e allevato fino al trentacinquesimo anno di età: e non è poco, anzi, forse è quasi tutto. Oggi a me pare che Genova abbia la faccia di tutti i poveri diavoli che ho conosciuto nei carruggi gli esclusi che avrei poi ritrovato in Sardegna, le “graziose di via del Campo. I fiori che sbocciano dal letame I senzadio per i quali che Dio non abbia un piccolo ghetto ben protetto, nel suo paradiso, sempre pronto ad accoglierli.
F. De André

Genova, fra i caruggi di Faber e antiche memorie

Non era la prima volta che salivo su un intercity per Genova con mia moglie: casomai - ma si tratta proprio di un dettaglio - lo era il tragitto Viareggio Centrale - Brignole, anziché Pisa Centrale - Piazza Principe; e non era la prima volta neanche che andavamo a trovare dei nostri carissimi amici pisani di stanza nella Città della Lanterna ormai da svariati anni.

Eppure, queste 24 ore complessive passate a partire da un “campo-base” nel cuore della «Madænn-a» (l’antico e caratteristico quartiere della Maddalena) hanno trasformato il mio modo di vedere e considerare questa complessa città, crocevia di mondi, esplosione di biodiversità culturale, laboratorio incessante - seppur con risultati alterni - di socialità, accoglienza e convivenza.

Camminare fra i «caruggi» (letteralmente «caroggi», tipici vicoli, strade o porticati liguri) e «crêuze» dell’antica «Zêna» (la denominazione genovese della città) attraversando «ciàsse» (ovvero piazze) e districandosi in un dedalo di «butêghe», «buteghìn» e «fóndeghi», fra «carogê», «donàsse», «portoâli», «móneghe», «pescoéi» e «batôzi» dalla prospettiva popolare di un genovese - per un quieto dimorante della campagna di «Pîza» - è sicuramente un esperimento culturale e sociale di ampio respiro. Che non esito però a consigliare a chiunque.

Le note negative ci sono, naturalmente, ma non a carico di quell’aere popolare che la città trasuda: la prima stortura è proprio incastonata nel luogo-simbolo delle relazioni fra le due antiche repubbliche marinare, quel «Cànpo Pizàn» in ragione del quale vale - ormai da oltre sette secoli - il detto «se vuoi vedere Pisa, vai a Genova».

L’involontario camposanto tardo-duecentesco si trova non lontano da «in Sarzan», ovvero quella «ciàssa» di cui il poeta dei Canti Orfici Dino Campana ebbe a verseggiare «a l'antica piazza dei tornei salgono strade e strade e nell'aria pura si prevede sotto il cielo il mare» e che solo un decreto cittadino del 1523 tolse al sacrale vincolo di acquistarvi terreni a scopo edilizio, oggi è un piccolo slargo - definitivamente inglobato nella cinta muraria - che garantisce al sestiere di Meu una luce e un luogo per frescheggiare.

Nel XIII secolo fu invece il limite orientale di quello stesso sestiere - inizialmente denominato «Campus Sarzanni» proprio per lassa continuità alla piazza omonima - significativamente esteso o, perlomeno, abbastanza da contenere qualche migliaio di prigionieri pisani che colà trovarono la morte di stenti se - appartenendo ai ranghi sociali più elevati - non furono soccorsi dalla nobiltà locale; mentre oggi il modesto slargo dalla superficie di non più di 200 metri quadrati è di forma irregolare, dominata in gran parte da alte case a schiera dalla facciata a tinte pastello tipicamente ligure e il selciato, rifatto nel 1992 a cura privata di generosi volontari genovesi, è realizzato con ciottoli di mare bianchi e grigi, tipica pavimentazione ligure - detta «rissêu» in uso già nel Medioevo.

Campeggiano su quel selciato la stilizzazione di un armo antico e gli stemmi di Pisa e Genova uno a fianco all’altro, memori di quella drammatica battaglia - quella della «Melöia» che sancì l’inizio del lento declino pisano e la fine immediata del suo dominio marittimo: i pisani meno “sfortunati” - come ad esempio Rustichello trascrittore (o inventore?!?) dei viaggi di Marco Polo - furono tradotti nelle carceri di Palazzo San Giorgio - giù al Porto Antico, all’ombra di un’arteria stradale che un grosso sottostante fico sembra voler sfidare - ottenendo una chance di sopravvivere al giogo della prigionia che gli assiepati di Campopisano non conobbero.

Ma aldilà di queste “ombre”, la luce di Genova è tutta nelle sue peculiarità, nella sua indole sincretica, nella sua capacità di mescolare, far convivere, sovrapporre: e proprio di sovrapposizione si può parlare con la chiesa di San Pietro in Banchi, molto particolare perché edificata su una terrazza nella quale si aprono - oggi come nel 1572 al tempo della sua ricostruzione - vere e proprie botteghe (veramente unico poter contemplare un edificio religioso che si staglia sopra una fornitissima mesticheria!).

Con «gli occhi grandi color di foglia» verso Via del Campo

Ma bando agli indugi: come abbandonarsi malinconici alla luce della Lanterna - flebile e distante ma inesorabile nella rada notturna dominata dalle dissonante e megalomane onnipresenza di un renzopianismo tirannico, irrefrenabile e pronto a sfidare qualunque contesto - senza prima aver attraversato Via di Prè e soprattutto Via del Campo?

La prima (che per me è stata la seconda in ordine cronologico, provenendo dalla «Madænn-a») è il vero crogiuolo multietnico della città, un luogo di contraddizioni, una strada che - a gusto del passante - può assurgere tanto a latrice di integrazione e inserimento, quanto di emarginazione e disagio: è tutta una questione di prospettiva, di capacità adattiva, di familiarità con il popolare, ben poco acconcio per il delicato «stéumago borghéize», sia esso dell’attempato conservatore e/o reazionario più rancoroso, sia del più vago e tenero progressista radical chic.

Quindi sì: chi non sia svezzato agli arcani della vita più terra terra, fatta delle difficoltà del vivere quotidiano - pur modeste che siano -, fa bene a seguire il consiglio delle agenzie turistiche ed evitare di passare attraverso questa caratteristica arteria pedonale.

Non molto differente - tanto è vero che se ne può considerare legittimamente prosecuzione - è la decantata Via del Campo: a dirsela tutta, la prima volta che mi sono imbattuto musicalmente in questo toponimo avrò avuto a stento 10 anni, ma - anziché il caratteristico «caruggio» genovese, si trattava della Casa in Via del Campo dell salentino Franco Simone, traduzione in Italiano di Roberto Arnaldi di A Casa Da Mariquinhas - fado portoghese noto soprattutto per l’interpretazione di Amália Rodrigues - concepita probabilmente pensando al più celebre manufatto musicale di Faber.

Ma se lo spirito del cantautore pugliese - sapientemente indirizzato dalla traduzione del leggendario «Robertino» di Radio Montecarlo - non si discosta molto da quello del collega genovese nel mettere in poesia musicale uno scorcio di tempi e luoghi realmente esistenti - attraverso un realismo malinconico e schietto -, il movimentato valzer di Faber - dalle caratteristica e inconfondibile impronta da cantastorie medievale - si colora della morale popolare «Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».

Ed è ciò che si può trovare scritto su uno dei muri che - poco più avanti rispetto a Via Del Campo 29 Rosso, piccolo museo dedicato a Fabrizio De André e scrigno di tanta storia e umanità - si affacciano sulla Piazza Vacchero emblematicamente al cospetto della Colonna Infame.

Ecco, Genova è forse tutta qui, in questa via posta nella sua parte più ima - quasi a rappresentare il bassofondo della variopinta plebs che lo abita - laddove inevitabilmente scivolano giù le acque piovane dopo aver rinfrescato distratte la sontuosa alterigia dei Palazzi dei Rolli, in questa imperitura dinamica fra alto e basso che tanto spontaneamente dipinge colà le dinamiche sociali cittadine.

Certo che poi ci sono la Funicolare Zecca – Righi che ti porta su una meravigliosa terrazza panoramica a dominare tutta la città (e soprattutto ha come ultima fermata il Ristorante Montallegro dove ti puoi mangiare una pizza al metro veramente buona) a perdita d’occhio, l’Ascensore Montegalletto che ritraduce invece al Castello D'Albertis a raccogliere suggestioni etnologiche da un gustoso manufatto del revival neo medievale di fine XIX secolo. E potremo andare avanti ancora per diverso tempo a raccontare e raccontarci di croci e delizie di Genova, dei suoi infiniti contrasti, delle sue interminabili incongruenze, a disvelare lo scorbutico temperamento minimalista del genovese che - come osserva il mio amico Mario - è sempre «meno» quanto a impegno verso le cose della sua città, dove miseria e opulenza sembrano darsi il loro quotidiano appuntamento come se nulla fosse, a promettersi l’una all’altra la prima con dignità quasi imperiosa, la seconda con un distacco meno snob di quanto non accada altrove.

È proprio la città di Faber, quella che il 22 Aprile 1860 rese alla nostra le catene - simbolo paradossale di un’antica libertà perduta e sepolta proprio a «Cànpo Pizàn» - di Sinus Pisanus, come atto di gratitudine per il sacrificio di Curtatone e Montanara.